Estratto da un articolo del 15 giugno 2020

 su “Repubblica “ di GENNARO MATINO

… Va dato merito al magistero di Sepe di aver tentato una svolta pastorale e un approccio diverso e familiare al ministero episcopale, ma il futuro che avanza velocemente, le parole del mondo, quelle che dicono l’uomo, la società, complicate dalla tragedia della pandemia stanno inarrestabilmente collocando la Chiesa universale, non esclusa quella di Napoli e le sue faccende, anche le più nobili, sempre più alla periferia dell’avvenimento umano. Qualcuno, anche nella Chiesa stessa, potrebbe pensare che finalmente una Chiesa meno presenzialista potrebbe meglio dare ragione della sua verità, della povertà, del silenzio di cui ha bisogno la Parola per passare i suoi significati.

Ma quella periferia di cui parlo, non è il deserto biblico, è l’esilio, il confino progressivo, il bando dalla quotidianità dei più. Una marginalizzazione che richiederebbe a livello della Chiesa universale una rielaborazione dei temi del Concilio Vaticano II, forse con un nuovo Concilio, per dare a una Chiesa sottosopra il senso della sua direzione, lo scopo della sua missione, il significato del suo essere in un mondo che non sente più il bisogno e la necessità della sua presenza.

Intanto in attesa di miracoli vaticani, ci vorrebbe a livello locale una profezia di presenza, una lettura del sé credente di questa Chiesa, la più grande del meridione, l’ultima grande metropoli d’Europa ancora fondamentalmente cattolica, che le consentisse di guardare con realismo i cambiamenti in corso nella realtà sociale e culturale, come negli assetti concreti della presenza e dell’azione della Chiesa a Napoli. Dire la fede nel tempo delle parole senza significati, mentre il coronavirus non solo ha tolto il respiro, ma sta cambiando i connotati delle relazioni, è una impresa che supera le difficoltà che il Vangelo ha sempre trovato sulla strada dell’annuncio. E senza le parole da scambiare il rischio per la Chiesa è scomparire. Non è certo un mistero che per passare le parole bisogna conoscere il vocabolario di chi le deve ricevere e la Chiesa sta usando parole che da tempo l’uomo contemporaneo ha eliminato dal suo vocabolario e che dopo la pandemia restano ancor di più parole che non sente neppure lontanamente il bisogno di conoscere.

E mentre ancora ci ostiniamo a proporre riti e celebrazioni, che di sicuro hanno il loro significato, mentre ci affrettiamo a vietare o consentire tale liturgia, benedizione o processione dimentichiamo che “Prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione” (SC 9). È lì la sfida di una Chiesa che voglia essere ancora credibile per il mandato che ha ricevuto dal suo fondatore, è lì la prima testimonianza che dovrebbe avanzare oltre ogni altra azione, oltre ogni apparato, e che segna il suo destino. Il servizio di carità, schierarsi con gli ultimi è vitale. Ma sostituirsi per supplenza allo Stato nella sua manchevole assistenza ai bisognosi, occupare spazi che altri potrebbero meglio e con migliori risultati gestire, non è la nostra sola vocazione, neppure in assoluto la più importante.

Vale ancora di più in questo tempo anemico di testimoni di verità ricordare che “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense” (At 6,2). Siamo stati chiamati a dare testimonianza della speranza. Questa è la primaria sfida della Chiesa nel mondo, questa la sua missione, questa la sua vocazione: come cantare i carmi del Signore in terra straniera. Questa è la sfida della Chiesa napoletana, l’ultima ancora possibile per raccontare a questa nostra terra, ancora così impregnata di sacro, la sua vocazione cristiana.

Stiamo perdendo la nostra gente, perché la nostra gente non sa chi siamo. …